Editoriale
Estratto da Archeo n. 469 – Marzo 2024 Negli anni tra il 203 e il 211 d.C., una grande pianta della Roma del tempo venne affissa sulla parete di un’aula del cosiddetto Tempio della Pace. Era incisa su 150 lastre di marmo, preventivamente applicate alla parete con perni di ferro. La pianta era alta circa 13 m e larga circa 18. Su una superficie di circa 235 mq erano rappresentati, si è calcolato, almeno 13 550 000 mq dell’antica città: vi erano raffigurati tutti gli edifici di Roma, pubblici o meno, con un dettaglio che permetteva di identificarne addirittura i singoli ambienti.
Le tracce della Forma Urbis – così la pianta viene denominata (con un’espressione che risale, però, all’età moderna) – si perdono durante il Medioevo e la riscoperta di alcuni suoi frammenti avviene, forse del tutto casualmente, nel 1562. Da quel momento, la storia della Forma Urbis è fatta di infiniti frammenti. E la conoscenza di quello che, a buon diritto, possiamo annoverare tra i documenti topografici più rari tramandatici dell’antichità è rimasto, in massima parte, appannaggio degli studiosi.
Fino a poche settimane fa. Lo scorso gennaio, infatti, l’inaugurazione di un nuovo Museo della Forma Urbis, allestito all’interno dell’altrettanto nuovo Parco archeologico del Celio, ha restituito quello straordinario documento alla conoscenza del pubblico. Si tratta di un risultato (un «evento» avremmo voluto scrivere, se quel termine non avesse oggi assunto una connotazione tanto effimera e banalizzante) assolutamente straordinario, frutto di un lavoro e di un impegno – ne parliamo nello Speciale del numero – che meritano il massimo riconoscimento (Continua la lettura sul numero di Archeo in edicola o abbonati)
Andreas M. Steiner
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